Solitudini bastate…

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(per dirla con Max Gazzè)

La solitudine arriva presto, pezzo a pezzetto, e con te rimane. Arriva senza che te ne accorga e non se ne va mentre sorridi, quando a Natale vi abbracciate a tavola, se al Ferragosto sole in terrazza e gavettoni tutti, tutti voi che ve ne state insieme. Poi passa l’anno, torna un altro Ferragosto e… manca una persona.

– Una sola, che sarà mai.

– Sarà eccome.

A Natale ne mancano due, di convitati, tra chi cresce e chi se ne va più gatti vari che scappano o muoiono, e tu sei lì a guardare chi hai, e la casa che sembra comunque piena di un giorno festoso; qualche mese dopo sei un’altra volta a crudo e melone nel dehor sul mare più arachidi e Gin Tonic che si fa uno strappo alla dieta, se oggi siamo tutti insieme.

La solitudine è ancora lì, in quei momenti è con te che proprio non lo capisci e allora procedi campione, va’ avanti e conquista; finché a un certo punto. Si fa toccare. La tocchi. È fredda, la solitudine. È fredda anche a Ferragosto, quando il sole scalda che sembra cuocere e vai al bar solito che tutti trascurano per la nuova croissanteria fighetta che ha aperto all’angolo. E sei in coda, una coda che non ti aspettavi lì, al bar di solito vuoto, una coda calda in questa feria d’agosto insieme agli altri estranei, a tutti gli altri che sorridono in fila e pregustano la loro calda giornata di festa.

Ma poi. Scambio di sguardi col vecchio che ha un tocco di focaccia, lo tiene come le paste per sua moglie e i figli quando sua moglie c’era e lui interessava ai figli, quando comprava cavolini e bignè mi dia soprattutto quelli alla crema e aspettava fuori da messa col sorriso e i dolci in grembo, e ignorava il rimprovero di lei dacché non era entrato in chiesa, e rincasavano con passo da domenica a mangiare il buono che era già pronto all’alba. Ora ti guarda lui, il vecchierello dalla polo a righe e macchie, ti guarda con quel suo cane ignaro e ti fa capire che lui invece sa, sa quel che viene e sa che ci sei anche tu lì dentro, vi riconoscete nella solitudine della vostra festicciola sobria.

Esci con un groppo allo sterno, proprio sotto la gola, un magone al petto che ti mangia dentro, così tanto che non senti più fame: prendi la tua brioche al cioccolato nella carta spessa che non unge e ti avvicini al cesto della spazzatura, ché tanto la solitudine sazia. Devi cercare di fartela compagna, quella. Tempo ne hai, hai ancora anni, ora che sai di averla al tuo fianco. E devi ammansirla devi, perché se no la solitudine fa male, arriva a un punto che diventa brutta, così di colpo, e non ti dà tregua. Se la coltivi, invece, un po’ ti è amica: o la prendi con te, la solitudine, o entra a forza e poi ti espugna e sbrana.

Vorresti buttarla, quella dannata brioche, sbatterla sul fondo del cestino e schiacciarla bene col pugno ma non lo fai, tuo malgrado non lo fai perché il cestino è pieno e la brioche non ci starebbe e ancora non lo fai, se no finisce la tua parvenza di Ferragosto e la solitudine diventa vera.

Poi l’inverosimile, se succedesse in un libro o alla tivù non ci crederesti: cade la brioche al cioccolato, cade e pensi non è atterrata male, tanto è protetta dalla carta. Ti chini, la afferri, la osservi e però il sacchetto è a rovescio, la brioche sguscia e cade sull’asfalto del marciapiede. La raccogli subito e pensi sono passati meno di cinque secondi, se soffio posso mangiarla e non succede niente ma poi guardi a terra, tra chiazze di pisciata e piume e cicche e altro, no non si può, che schifo. E subito la solitudine ti è appollaiata in spalla.

Intanto è cambiato davvero il tempo, come era scritto in agenda. Piove forte e ristora, ma qualcuno no. No chi è in guerra, no chi quattro anni fa attraversava il ponte. No chi vuole tornare col culo in spiaggia, oggi, in attesa che arrivi il suo turno.

– Il turno di cosa, per comprare le brioche?

– Ma no, che dici, il turno per… lascia perdere, buon Ferragosto.

…a farsi da mangiare. (Per chiudere con Max Gazzè)

Camminare

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Ho camminato sulla neve ghiacciata. Morbida sotto e ricoperta da un lieve strato di gelo, tipo la crema catalana o i marshmallow con la crosticina di cioccolato, quelli che si vendono sulle bancarelle al luna park ma scelgo sempre le cocacole e i coccodrilli gommosi a palate, come nei candy shop inglesi. E finisco per non assaggiarli mai, quei dolcini a forma di talpa. Che bello il gioco delle talpe da acchiappare, la prima volta l’ho visto in vacanza coi miei, a Londra, ero più piccola di Candy alla casa di Pony. Entriamo in questa sala giochi tutta luci e urla meccaniche, il Trocadero nel mio immaginario dà ancora punti a Disneyland; mi passano un grosso martello dall’aria simpatica e comincio a menare come un ferraio sulle povere teste delle talpozze che si alternano fuori dalle buche, lente e più veloci e non sai mai dove spunteranno, colpisco alla rinfusa che Thor spostati e non faccio esattamente una strage, ma rido a fauci così smodate che contagio il circondario, la mia famiglia e anche i giocatori in zona, per lo più ragazzi che si sforzano di rispettare un contegno adolescenziale. Eh, da adolescente non è facile mantenere una reputazione, velarsi di aloni che sappiano di mistero o potenza o perfino di sacralità, coltivare una scorza che fa un po’ Terence di Candy Candy per custodire quel ripieno tenero e spugnoso, che si guasta in un attimo.

Ho camminato poi sul ghiaccio vero e puro, mio figlio che sgusciava furbetto lontano da me come il giorno in cui è nato, anche stavolta senza farsi male, e si divertiva quasi avesse avuto lo slittino sotto il culo. Da bambina andavo spesso sulla neve, perché era inverno perché lo facevano tutti perché i miei si aggregavano perché si respira aria sana perché è spassoso. Non mi sono mai divertita troppo sulla neve, forse perché dopo aver quasi evirato un istruttore passandogli sotto le gambe con gli sci a candela, ho avvertito il pericolo di uno svago che non fa per me. Conservo un buon ricordo delle giornate passate sullo slittino, quando scendevo storta col mio tutone – altro che tecnico! – tinta beige squaraus di mucca e finivo regolarmente a puccetta nel nevischio, sempre fradicia a fine gioco ma che risate anche lì, altri momenti belli che se li avessi immaginati così tenaci nel tempo, forse qualche foto ricordo senza rugne né smorfie a mio papà l’avrei concessa. Risalivo sguaiata con lo slittino a rimorchio per conquistare la discesa prima di mia sorella, i guanti non più un dito per apertura, e ridevo sfrenata per le cadute che io facevo, che lei faceva, che speravamo facessero i nostri genitori. E mi sentivo uno di quei bambini delle storie fredde e lontane, il piccolo eroe di Haarlem che salva i compaesani bloccando per tutta la notte la diga con un dito; Kay e Gerda che, meno imbacuccati di me, si spostano per terre incantevoli  sulle quali la regina delle nevi fa sentire il suo respiro prima ancora di Babbo Natale. E oggi non c’è neve che sia sciabile sempre e per tutti, non è detto che ogni slittino sia cavalcabile e non è facile, forse neanche appetibile, fare un viaggetto a Londra, in Olanda o a Rovaniemi. Ma. Proprio ieri l’Oms ha detto che Babbo Natale è immune dal virus e può circolare, ho pianto di gioia e penso sia una gran cosa per i nostri bambini, costretti a vivere una cattività che neanche i genitori sono propensi a fotografare, meglio non lasciare traccia; una gran cosa per i nostri adolescenti, che avranno qualcosa in più da condividere e confutare con gli amici virtuali, virtuali come Babbo Natale; e una gran cosa per noi con più anni in faccia, noi bisognosi di qualcuno che, pur relegato in un cantuccio segreto, in qualche modo ci riporti a sperare.

Ho anche camminato sulla fanghiglia fredda, quel bianco sporco accumulato a bordo strada che a volte occupa i posti auto buoni, che fa pezzati i campi lungo i tratti, e sporca le scarpe delle signore che si ostinano a lucidarle; quella poltiglia zozza e puzzolente, che spinge a centro corsia le biciclette, e illude i giovani che sì giocheranno ancora, regala ai pensionati pretesti di mugugno e sfida i cani a tingerla di giallo, che allunga il percorso di chi già ha fretta, e ci ricorda che l’inverno è tanto lungo, dobbiamo continuare a camminare.

Scritto da Scribastonato il 16/12/2020

Quasi sempre

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Ho letto un post che mi ha toccato il fondo,

un thread audace e senza freni intorno,

metteva il cosa, di per sé già ardito,

in una forma che non regge filtri.

Ricordo il modo in cui scrivevo un tempo,

cui mi abbandono s’entra in me il sonoro,

musa potente, musica m’assorbe,

mi sbrana l’anima e si risputa fuori.

Ho così il pezzo, il brano o il testo pronto,

ma perdo spigoli del mio equilibrio dentro.

Sia festa prodiga di luci e sguardi liberi,

se canta il diavolo finisce a stupro e vomito.

L’amore tenero, sessuato o forse impavido,

si scopre torbido, quando a calare è il ritmo.

Per questo spesso mi tengo alla larga dalla musica, da certa musica che risveglia la sintassi peggiore di me. Ma non è solo una questione di forma. A volte a spaventarmi è il viaggio che mi aspetta, il posto che visiterò per scrivere, il cammino da percorrere.

Finché uno entra in casa propria, magari nell’appartamento in cui abitava felice da piccolo, è un conto. Ma affrontare spauracchi di un passato che genera bestioni su bestioni richiede coraggio. E la musica non sempre viaggia dalla parte dell’eroe, non sai in anticipo quali ricordi o esperienze amplificherà, potenzia ma ha effetti collaterali che uccidono.

Ci sono epoche che fanno paura e posti che feriscono, non serve musica ad amplificare. Il kinderheim dove trascorrevo l’infanzia estiva, certe serate a casa dei miei, il cimitero delle ampolle umane dove Astolfo cercherebbe di nuovo il senno altrui.

Per scrivere bisogna osare, penetrare certi edifici, esplorarli, allontanare mani e braccia da sé per frugare ciò che non si vorrebbe neppure sfiorare.

La mattina, quando esco, qualcuno mi chiede:

– Dove vai oggi?

Nell’appartamento di mio nonno, al parco del Valentino, nella biblioteca della vecchia scuola, al castello di Fenis, a lezione dal prof di fisica del liceo, a trovare il parroco di F., nella casa del boia, la risposta cambia a seconda di quel che voglio immaginare.

Prendo l’auto, accompagno chi va a scuola e mi dirigo verso l’ufficetto che mi aspetta. So quasi sempre cosa scriverò quel giorno, soprattutto se mi sto dedicando a una storia lunga. A volte ascolto una canzone preparatoria, qualcosa che porti le emozioni dove devono andare senza domarmi l’anima. Spengo la musica – non interrompo mai un pezzo, – pago il parcheggio se non c’è gratuito, lascio il tagliandino sul cruscotto, apro il portone dalla serratura difettosa e mi ritrovo nel loft zitto e in penombra. Sveglio luci, computer, macchinetta del caffè,  sposto sedie, prendo penne fogli dizionari appunti e comincio. Entro dove so, i miei occhi guardano intorno ma non ho solo un visore a trecentossessantagradi, anche le mie braccia sono lì, le mie gambe, io stessa sono presente. E vedo quello che è successo, spesso non proprio come è successo, e sto bene, sto male, vorrei ridere piangere scappare ma resto lì, a osservare quelle scene che presto potrò raccontare. Perché senza musica posso anche tornare indietro.

Per anni la mia scrittura non ha avuto filtri, è stata incondizionata e in balìa di quel lato selvaggio, notturno, famelico e cannibale che spaventa tanto, prima me e poi tutti gli altri. Mi svegliavo la notte in sovraccarico di emozioni, sono piena di quei testi febbricitanti. Poi ho spento la musica per una decade. Quando l’ho riaccesa avevo addosso come un sigillo invisibile, un piccolo dispositivo che controllo a mio piacere con una certa facilità. E la mia scrittura si è fatta misurata. Per qualcuno è anche troppo controllata, lo sforzo traspare.

Vivo lo stesso, sento, immagino, soffro e scrivo, ma respiro la notte anche quando non dormo. Ogni tanto devo sciogliere il sigillo, decido io.

Ho salvato me a discapito della scrittura. Ho rinunciato a distruggermi, a diventare musica, a carezzare la follia, a ingollare eccessi, anche se il mio spirito consumato si sente ormai vecchio. So che il mio demone feroce resta in agguato, però ho scelto di darmi tregua.

La mia scrittura non diventerà mai quella che sarebbe stata se mi fossi immolata alla creatività, ma meglio non rischiare: a volte la natura si beffa di noi, instilla in un vago scribacchino l’urgenza del Sommo Vate.

Leggo i quaderni passati, erano più forti; e non è per l’età o lo scorrere del tempo, a sedare è proprio quel sigillo che fatico sempre meno a sopportare, purtroppo.

Ripenso a un manga (e successivo anime) di cui ho curato l’edizione italiana per Dynit, Saiyuki di Kazuya Minekura. Basato sul romanzo cinese Viaggio in Occidente – ispirato alla leggenda dello scimmiotto di pietra Sun Wukong (si pensi a Dragonball, al più recente The new legends of Monkey di Netflix e ai vari adattamenti per videogiochi) – il fumetto parla del viaggio verso ovest compiuto da quattro personaggi (meravigliosi!) per cercare i sacri sutra che serviranno a fermare la resurrezione del re dei demoni.

Tra questi viaggiatori c’è anche Son Goku, il più giovane del gruppo, la trasfigurazione dello scimmiotto immortale rimasto imprigionato per cinquecento anni sul monte Gogyo (il monte dei Cinque Elementi) e poi liberato. Son Goku porta sul capo un diadema, un dispositivo di controllo, e quando lo perde si trasforma nel Seiten Taisei, “il grande santo pari al cielo”, una creatura invincibile e animalesca che libera i suoi poteri demoniaci perdendo il controllo di se stesso.

Ecco, la musica mi trasforma nel Seiten Taisei.

E quando il grigio si spiccica dalla pianura e la foschia evapora, lontana la cima del Monviso si fa inarrivabile, una montagna sacra spezzata dalle nubi, la tana di creature potenti, divinità assorte e demoni rabbiosi, e magari dello stesso Goku.

Ho la sensazione che se togliessi il sigillo, l’umanità mi relegherebbe lassù per cinquecento anni e oltre, e nella notte sarebbe terribile convivere coi miei mostri, più spaventosi dei lupi che popolano queste zone.

Ma per fortuna controllo la musica e domino la scrittura. Quasi sempre.

Scritto da Scribastonato il 27/11/2020

Corrispondenze rap

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There must be something

 in the way I feel 

that she don’t want me to feel…

Così venti e più anni fa i Red Hot Chili Peppers attaccavano la loro I could have lied. Li ascoltavo in loop, quel tardo pomeriggio di autostop tra Bolsena e Roma station. Sulla decapottabile di un bordò parecchio losco i due arabi cappuccio e gioiellazzi, uno alla guida col sigarillo spento e l’altro a grattarsi il piede in infradito, mi volgevano domande dal look sincero. Credo provassero pena.

La musica amplificava il male che mi picchiava dentro: un amore precipitato in fretta, i se avessi fatto o se fossi stata e da domani e mai più, e i due arabi rap che aggiungevano beat al mio mesto freestyle.

Non sono cambiata molto da allora, continuo a fare e mi ostino a essere, forse perché – per dirla alla RHCP – il mio volto riflette sempre il vero. Purtroppo.

Tre giorni a Viterbo, bed & breakfast a ridosso del cerchio di mura. Lotus flower, fiore antistress di metallo e perline sul comò della stanza che mi ospita. Riconosco il giochetto indiano, lo vendevo nel mio peregrinare giovanile, riproduce le forme dei pianeti, mi manteneva in permanent vacation per le vie spensierate d’Europa.

Le notti di freddo e stelle sarebbero finite quella volta a Bolsena, una rottura assecondata dai miei amici arabi rap. Dioniso che irrompe come allora per stravolgere un presente dall’aria più mite, accende una danza odierna che straccia i freni, i blocchi e i divieti cui mi sforzo di aderire.  

Azzanno le recinzioni del coprifuoco, gengive sanguinano tra il ferro incorrotto, i denti vacillano e la lingua è sbrandellata ma continuo a masticare, a colare, a lacrimare senza requie, perfino quando le guance sono squarciate e l’osso dubita di reggere.

Mastico anima e smanio libertà, certi ricordi generano fiumane. Ma la libertà stavolta può portare morte, non si ragiona col morbo oltre la rete.

Gli Einstürzende Neubauten urlano, martellano, si fanno propulsori.

No, non sono più così. Le mani sulla rete cercano uno spiraglio, il metallo punzecchia, un graffio alla carne e subito mi ritraggo, basta sofferenza.

Piango e soggiaccio a questa nuova me: io-voglio-vivere.

Resto audace e ribelle nelle parole che leggo, che scrivo.

La settimana scorsa ho comprato La fisica della malinconia di Georgi Gospodinov (edizioni Voland). Il mio libraio ha un rituale: timbra una fascetta di carta marroncina, l’avvolge intorno al libro e v’inserisce all’interno una vecchia cartolina spedita da chissà quale parte d’Italia.

Fremo ogni volta per scoprire l’omaggio, bramo che vada oltre i tradizionali saluti dalle vacanze di un dì.

Ho chiesto al libraio: ora conosco l’origine delle sue cartoline. Però.

– Però…?

– Eh, però la mia testa…

– Lo so che sei una testona, ma cosa c’entra adesso?

– La mia testa ne ha già rielaborato i pezzi, la storia non è più incontaminata. La racconto lo stesso?

– E ti dobbiamo pregare?

Marino che vive al paesello montano natio, Marino con la bocca storta da che si sappia, Marino senza soldi né appeal per attirare una compagna. Marino, che una figlia con una bracciante mentecatta gli è anche uscita, poi non ne sa più nulla di una né dell’altra.

Marino che si arrabbia col sorriso, Marino che inclina il capo se ringrazia. Marino che un giorno alla bottega conosce Celia: quelle cosce mulatte sono troppo, ma accetta il dono finché la vita glielo permette.

Marino e Celia sembrano beati, in un paese che non capisce come: lui svuota cantine sull’Ape sgangherata, lei assiste la vecchia Elvira che soffre di paturnie. Ogni sera, appena la pendola dice otto, Marino varca il cancelletto a ruggine, lungo abbraccio dopo un tempo arido e annusa il fumo della sua pietanza esotica. Non manca notte che non porti un ninnolo, ciondolo o spilla o statuina mutila. Allinea gli scarponi bugnati all’ingresso, ci mette dentro le chiavi che non può scordare e insieme fanno festa, Marino e Celia, sotto la luce che traballa gravida.

Ogni tanto i clienti lo pagano, Marino, lo pagano in banconote che subito regala a Celia, sul loro tavolo. Celia lo trattiene, non preoccuparti, di soldi bastano quelli che guadagno io; e bacia quella bocca storta e amabile.

Nel dopocena portano in cantina la merce accatastata, smistano robe da tenere e vendere, risanano il recuperabile e stringono sacchettoni per la discarica.

E conservano lettere, Celia e Marino, lettere e cartoline che puzzano di emozione, del lieto e del dolore, che narrano la vita di chi è fuori dalla memoria e non ha più ricordi; lettere e cartoline che Marino e Celia si raccontano a vicenda, prima di dormire.

Marino è felice con la sua donna colorata, così felice che aiuta a traslocare chiunque glielo chieda, e lo fa gratis, tanto è contento, se avessi bisogno gli altri mi aiuterebbero.

Ma il bisogno, si sa, prima o poi chiama, e la risposta non sempre è quella attesa.

Celia, scaduto il permesso, è richiamata al suo Paese, quel paese così lontano e pitturato che per Marino non ha una faccia. Entrambi sono pazzi dentro, pazzi e in bilico saltellano da un piede all’altro, implorano aiuto da chi al paesello conta. Tutti dispiaciuti ma non so che fare, non posso, non ora, dai che andrà bene, e intanto i giorni passano e Celia sta per partire.

Marino non osa rinunciare, neanche per seguirla, neppure se fa male. E perde la sua Celia.

Com’è lunga la sera nella casupola fredda, la luce è stabile ora che Marino fa pagare i suoi servigi a chi credeva amico.

Celia prova a contattarlo ma cade sempre la linea, il cellulare da quel fianco di montagna prende poco e non raggiunge il Perù. Gli scrive una lettera, due, tre; Marino non risponde, lei demorde. O forse le succede qualcosa, ma la distanza è troppa per preoccuparsi.

E scorrono così, quegli anni di vita trattenuta. Marino sta nella catapecchia e basta a sé, tra lavoretti ormai radi causa schiena e beni da smistare e rivendere. Conserva lettere e cartoline, Marino dalla bocca via via più storta, uniche a distrarlo qualche attimo dalla sua Celia.

Non l’ha chiamata, non le ha scritto, ma l’ultima parola e poi spira è Celia.

Lo trovano una settimana dopo, qualcuno si premura di rintracciare la figlia: brusca, sgraziata e insofferente, cammina sulle travi che scricchiolano annerite scalciando i resti della vita di un paese. Inciampa sugli scarponi, fanno capolino le chiavi, colpisce con rabbia. Il curatore testamentario le consegna il denaro lasciato in un cassetto, le tre lettere avvolte nella velina e le scatole che custodiscono mezzo secolo di memoria epistolare.

Intasca i soldi e butta il resto, non li voglio questi schifi.

A un mercatino il mio libraio recupera lettere e cartoline, le acquista in blocco affascinato dalla varietà. L’ambulante conosceva Marino, mostra gli scarponi callosi quanto dovevano essere il volto e le mani del proprietario.

Il libraio conserva in cassaforte le tre suppliche di Celia, ma regala ai suoi clienti i rimasugli di quel paesino quasi spento tra i monti, non vuole che si estingua.

L’altro giorno non mi ha lasciato una cartolina, nella fascetta de La fisica della malinconia. C’era una lettera. Bordo a righe rosse e blu su busta ingiallita, VIA AIR MAIL. Non l’ha scritta Celia, ma qualcosa deve pur raccontare. E poi l’ha tenuta Marino, con le sue manone come foglie di ficodindia, di sicuro l’ha letta prima di addormentarsi, magari proprio alla sua amata.

Non mi decido ad aprirla, adoro la malia di quest’attesa. La nascondo in un libro che porto sempre in borsa: la sbircio di straforo, l’accarezzo, la pregusto. Se sarà una delusione, mi avrà comunque dato tanto.

Che strano, come mai nessuno m’interrompe?

Va beh la lettera è qui, con me, tangibile e vera.

La prossima volta ne svelerò il contenuto…

I could never change
Just what I feel
My face will never show
What is not real.

(RHCP, 1991, I could have lied, Warner Bros. Records)

Scritto da Scribastonato il 09/11/2020

Peccati veniali

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Flutti di nebbia tra alberi consunti, fari stondati ad abbagliare i campi, trattori precoci, galaverna che al solo sentirne parlare vagheggi. Buio, il buio confonde asfalti e terreni, stamane.

Mi si è rotta la macchina. Un’attempata Agila dura a respirare. “Era ora che cambiassi”, il parere di tutti. Il distacco più doloroso da quando ho finito i Karamazov.

Quell’auto, che ha perfino incontrato mio nonno (“Che strana, Pullu, è un furgone?”), ci ha guidato alla crescita quale cantuccio caro e fidato.

Ultimo baluardo della nostra vecchia vita, sprazzo di Liguria marchiata GE sulle terga, circolava per le strade di questo Piemonte che ci ha fatto così male, che pian piano ci entra nelle viscere.

L’esplosione il martedì: una spia sibillina ma neanche troppo, il fanale prende a piangere olio e poi stop, fumata bianca, demolizione e avanti col nuovo papa. Conservo l’antenna sbilenca in borsa.

Ho incontrato Piero pochi giorni dopo, vagavo mesta tra concessionari impavidi. Piero Agila, così battezzato, è una C3 Picasso dal respiro diesel, un elefante irsuto che offre alloggio a chitarre e zaini e ci ha accolto come il primo amore. Disciplinato seppur tardo di comprendonio, i ragazzi già l’adorano.

Meno di una settimana e l’antica auto è dimenticata. Temevo di farne una malattia, per quel che patisco i distacchi.

Venti minuti spartiti in treno, in coda o su una panchina, venti minuti e mi affeziono all’altro da “non ti scordo più”. Peccato veniale se due giorni dopo vige l’oblio, l’intenzione era genuina.

Coi libri non sono così volubile, non subito almeno. Siamo puttani nostro malgrado, soffriamo da far impallidire i tragici e poi si ricomincia da zero, manco da tre come faceva Troisi.

Il trasferimento non è stato semplice, separarsi dal mare strappa i sensi. Ho dato una connotazione a questa cittadina di pianura, l’ho immaginata come sarebbe piaciuta a Steinbeck, a Mc Carthy, a Haruf o a Camon, poi l’ho declassata a luogo di attività e impegno, se vogliamo di abitudine. E va ad aggiungersi alla mia Genova, a Imperia, a Ittiri, Gressoney, Innsbruck.

Tanti posti nel cuore rivelano la mia incostanza.

Quanti ritorni adolescenziali passati a fantasticare su incontri mancati e verità incompiute: rapporti svenevoli e amicizie fraterne, evasioni notturne complice il pianterreno, autostop lungo strade immaginate. La musica eccitava i miei miraggi, vedevo convegni con certi amanti che non c’erano.

Una volta una lieve cotta, un tizio più romantico del presunto, ha percorso chilometri per aspettarmi sotto casa. Ma le sorprese, si sa, meglio lasciarle ai bambini: quando l’ho visto sono scappata senza farmi vedere, la realtà non ammalia come il sognato. Me ne vergogno, sia chiaro, e se c’è giustizia sarà stato ripagato.

Da ragazza vantavo la bontà dei miei sentimenti: “IO fedele al compagno o all’amica per affetto, non per necessità; IO che conosco gli abissi delle emozioni; IO che i legami nascono spontanei, piuttosto crepo di solitudine”. E sola restavo, a fissare le nubi che si dimenavano sotto il manto di Alice dei Cocteau Twins, col mio vano orgoglio e il desiderio di essere ovunque, chiunque lontano da me.

Alice colonna sonora di Io ballo da sola di Bertolucci, Alice che bagna gli Amabili Resti di Peter Jackson (film tratto, peraltro, dal romanzo della scrittrice Sebold, che di nome fa proprio Alice).

Ricordo un pomeriggio nel cortile della Casa dello Studente, sdraiata su una panchina tra cumulinembi a folate e freddo mordace; la vetrata oltre me prometteva sorrisi, caffè e carta sottolineata, giochi di carte e quell’odore tipico di uno stanzone sovrappopolato.

Ero sola là fuori, prima goccioloni poi pioggia, a implorare quel cielo di non cadermi in testa. Nelle orecchie fluiva Alice, ális, alìs come uragano che sfigura il mondo, alìs spirito cupo che sbrana case e abbuia pianeti, alìs da farci stringere l’un l’altro finché alìs non se ne va. Alìs percorre oceani  interdetti, alìs abbraccia anime e raccolti, alìs cui è gradito l’uomo, alìs che porta, invisa, catastrofi e incolore. Tutto sbiadisce nella morsa di alìs, alìs che chiede ancora umanità.

Chissà come sembravo, a quegli studenti. Mi sentivo matta, nascondevo in tasca una follia che a ogni nota Alice smascherava.

Cercavo alìs, cantavo alìs così forte, nella mente, che qualcosa sarà pur trapelato. Volevo dirle non sei sola, insieme soffriremo meno. Credo si sia accorta di me, alìs.

Finita l’estasi rientravo in aula, desnuda dentro ed esposta nei miei gesti.

A ripensarci gli altri m’ignoravano, presi come siamo a schivare indifferenze che scambiamo per giudizi. E la palla che invecchiando si migliora non regge: per quanto mi metta alla prova, certe paure persistono.

– Ti sentirai sempre inadeguata, a ragionare così.

–  C’è poco da ragionare, nasco outsider e tale resto. Poco cambia che sia per ceto, aspetto, prospettive o auspici. Ma ora va meglio.

– Te ne freghi?

– No, ma l’incertezza è più leggera.

– Cioè?

– La mia prof pretendeva cinquanta lire per ogni “cioè” che dicevamo in classe.

– Pace, fammi un esempio.

– Ora mi sento fuoriposto per cavolate, che so, per l’età: sono a disagio con le Converse e i jeans strappati, o se faccio ciao ciao con la mano. Eppure capita d’incontrare vecchiette che salutano così, si sbracciano come facevano da bambine, e sono stupende. Allora compenso con cose da grandi, magari con un taglio di capelli…

– Ah, volevo dirtelo, come ti sei conciata…

– Non me ne risparmi, eh? Capelli lunghi e look sbarazzino attiravano le attenzioni e la delusione di ragazzi…

– Lo ripete mia mamma: “Dietro liceo e davanti museo”.

– Va’ a fare qualcosa, va’!

Anch’io riprendo a scrivere, ho giusto un raccontino su una fresca, spigliata, sfortunata anziana che…

Viaggio con Tolstoj

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Photo by Plamen Agov – studiolemontree.com – CC BY-SA 3.0

La settimana scorsa ho conosciuto una coppia insolita. Nelle loro torrette arroccate su un’altura impervia niente tv né social, internet solo per servizio e cibo a chilometri dieci; quei due non fumano non eccedono si divertono q.b., leggono suonano e padroneggiano cinque lingue l’uno.

Lui, geologo girovago per professione, ha diretto gestito orientato e incaricato fino al logoramento; ora obbedisce a lei sola, a un ingegnere di testa e di talento che l’ha investito della gerenza domestica.

Smarrita in un distanziamento boschivo reso surreale da sedili diffusi, tra un bignè e una slerfa de fugassa ho apprezzato gli spunti al femminile sulla sicurezza nei cantieri e le avventure fiabesche del geologo ammaliatore.

Si sofferma sulla Georgia lui, intervallandosi con domande di cultura generica che pungerebbero, se non intercedesse la compagna suggeritrice. Georgia e tradizioni che a me, non glielo dico, ricordano la Sardegna di qualche decennio fa; Georgia tra Caucaso e Mar Nero, dove le donne comandano purché non si sappia in giro; Georgia e innovazione, spiega, senza la paura nostrana d’ipotecare il tempo.

Ascolto estasiata finché non si blocca a redarguire me, proprio me che non do adito:

– Vorrei, vorrei non fai che ripetere, vorresti andare ovunque. Perché non scegli un posto e parti?

Sterminati attimi d’angoscia e bofonchio:

– Non tutti hanno la fortuna di viaggiare per lavoro, anche sognare è un po’ partire.

Da sognare in poi non dev’essersi capito un granché, tanto ho bisbigliato.

Ma è bastato, lui scalpita pronto al galoppo. Lei gli stringe la cavezza:

– Sono d’accordo, desiderare ci avvicina a possedere. Tra figli e impegni non è facile spostarsi. Quando sarai più libera, recupererai.

Amen. Non l’ha convinto, se si è accanito sul pecorino ai gelsi mulinando occhi ancora accesi. A fauci di nuovo vuote, ha ripreso la carica:

–  Se potessi partire oggi, dove andresti?

– Te l’ho detto, sono tanti i posti che prima o poi…

– Scegline uno e bon, troppi progetti sono zero successi.

Credo gli sia arrivato un calcio sotto il tavolo, e lei ha chiuso il discorso:

– Non lo dice certo a uno zotico come te, –  mi ha fatto l’occhiolino e ha cambiato argomento.

Un gran bel pomeriggio senza altri intoppi, ma due pensieri hanno preso a rimbalzare nel flipper della mia testa:

1 – Troppi progetti sono zero successi.

Forse il geologo ha ragione, anche per scrivere devo eliminare il resto. Ha battuto e ribattuto sulla programmazione a lungo termine: scegli un progetto, guardalo nascere ma immaginalo tra cinque anni, non lesinare sul tempo. Se poi non è destino i giorni e le settimane si contrarranno da sé, si dilateranno, spariranno. Tu intanto osa. E resta fedele a quella sola idea, che gli altri corrano pure dietro a mille gonnelle.

2 – Se potessi partire oggi, dove andresti?

Cercherei un posto al quale appartenere. Per sentirmi a casa, tra chi prova e pensa come me, senza brama di scappare ancora, la finestra aperta a respirare un cielo che accomuna. Invece niente mura a proteggermi, nessun paese si carica della mia pena; quando cade il buio, non c’è colonia umana a comprendermi.

Ricordo una frase di Pessoa, o forse non la ricordo così bene se non esce neppure su internet. Dovrei controllare i volumi nella libreria, scaffale in alto a destra; no, lascio perdere. La frase recita: “Vorrei essere ogni uomo in ogni luogo”. Ecco dove andrei, oggi: ovunque e nei panni di chiunque. Infiniti modi di essere e di vivere.

Ma resto sempre a qualche passo di distanza, e l’altro, qualunque altro, lo percepisce.

Lo so, sto barando, il geologo peregrino non intendeva questo.

Parto per un viaggio, uno solo. Non so scegliere. Mi affido per la prima volta a Google Earth, pare sia meglio di Maps. Schiaccio a caso, un mappamondo 3d piroetta sul monitor. Clicco ancora e la Terra smette di girare, due clic e s’ingrandisce. Che figata, senso orario, antiorario, su e giù, again and again.

Mi do tre possibilità, due le scarto e una è mia. Sembra la Ruota della Fortuna, chissà dove finirò. Zoom e si legge qualche nome, villaggi dal doppio carattere occidentale e arabo. Allargo allargo allargo, sono in Ciad: Zouar, Iriba, Adré, Kaouda, piccoli agglomerati nel deserto di case basse e recintate; ancora giù per altipiani e savane, Mongo, Abou Deia, Sarh, Bokoro, Mao fino al lago Ciad, quindi raggiungo la capitale N’Djamena, sul fiume Chari. Neanche a N’Djamena funziona lo Street View, qualche foto di una città recente e polverosa, cambio aria.

Giro ancora la ruota, giro giro e poi fermo il mondo. Firenze?! Non mi sembra il caso, la conosco abbastanza. Ultima chance: gioco la carta ”mi sento fortunato”, Google Earth sceglierà per me.

Vado, vado… ma come, in Bulgaria?! Sognavo la Norvegia, Berlino, Tokyo!

– E perché non ci sei andata?

– Non t’impicciare, confidavo nella sorte. Però in effetti… perché non ho scelto io? Sempre la solita storia: lascio che gli eventi seguano il loro corso e poi mi lamento; forse se avessi…

– Comunque in Bulgaria si mangia bene. Ho visto una trasmissione, fanno un kebab buono buono e gli involtini col formaggio sono invitanti, e poi la polenta…

– Va bene dai, vediamola questa Bulgaria. Fossi almeno capitata nella bella Sofia, o a Plovdiv, tra moschee e anfiteatri romani. Niente, sono a Svilengrad, giù giù al confine con Grecia e Turchia, in pratica un casino. È un posto tristemente noto perché da qui passano i profughi siriani che risalgono dalla Turchia, vengono raccolti col loro fardello, tanto dolore e poca fiducia, nei centri di smistamento in zona. Faccio un giro, ricordo immagini televisive, ho un groppo in gola, piango.

Se le scritte in alfabeto cirillico inquietano, lo STOP rivela cartelli stradali leggibili, procedo più spavalda. Cambio quartiere, supero una scuola, raggiungo uno dei peggiori hinterland mai visti – e dire che io nasco come randagio di periferia, –  degrado che sgretola prefabbricati, cortine e radar parabolici. Ma a incupire è la ruggine che cola, ruggine sorella di miseria e incuria. Un cane fulvo fissa l’obiettivo Google, supplica portatemi via. Gli alberi sono secchi e non c’entra l’autunno. Mancano asfalto, pattumiere e auto.

Esco miserere dal sobborgo, cuore sospeso e silenzio scialbo, saluto con conforto un minimarket. Earth non va oltre, dietrofront, di nuovo lo scempio. Rivedo ruggine, muri scorticati, balconi in gabbia, sbarre divelte. Frontiera di fatto, ricomincia l’asfalto con aiuole e villette, cancellate e giardini. Tinte vive, perfino il cielo – bontà di Google – ha cambiato umore. Nel parco giochi siepi potate, lanterne a boccia, bidoni gialli, plotoni di panchine. Tutto è pulito e riluce, viene il magone se penso a dietro l’angolo.

Dov’è il sindaco, che gliene dico quattro?

Costeggio la Mariza che scorre algida, chiedo a un tizio dal buon inglese: benvenuta a Svilengrad, visita il Ponte Vecchio. Annuisco finché non mi indica il municipio.

Eccolo, coi lampioncini che manco il Café de Paris a Montecarlo, solo che l’edificio è basso. Il sindaco mi riceve quando minaccio rimostranze al console, ma non capisce il mio parlato – finge? – e mi liquida con due bazzecole.

Zdravej ciao, Kolko struva? quanto costa? – è quanto imparo in poche ore.

M’intriga questa Bulgaria, ne percepisco il richiamo. Raggiungo il Mar Nero, distretto di Burgas, è qui che intendo muovermi.

I personaggi prendono voce, si tratteggiano prudenti i volti. Le vie di Nesebar fanno un po’ vacanza, a Tsarevo dormo sulla spiaggia. Ora anch’io ho un posto che mi vuole, è quel villaggio che blandì Tolstoj legando il nome allo scrittore russo, merita indagini. Mi fermerò per qualche mese o anno, resterò ospite di Varvara e Pavel.

Solo lì vorrei andare, risponderei oggi al geologo.

– Se va bene quello se n’è già sparito in Adzerbaijan.

– Buon per lui, avremo tanto da raccontarci al rientro.

Intanto parto per Yasna Polyana, e stavolta viaggio con Tolstoj.

Io mi arrendo

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Mattino smunto nel cantuccio di Piemonte che mi ospita da due anni, spiove nebbia e il cielo è di un grigio appiccicaticcio che nasconde montagne solide, lo detesto. Pioggia e fresco laborioso, settembre inoltrato infonde coraggio e progettualità anche a chi, come me, è più guardingo. 

Farò programmi e avrò un autunno, forse meno governabile dei precedenti ma in fondo sono gli imprevisti a forgiare le giornate. Quest’anno ancor più inutile – se mai abbia avuto senso – sì, inutile volere tutto sotto un controllo, beffare se stessi tracciando agende o calendari: priorità ed eventi resteranno vivi solo su carta, se il destino siederà di traverso.

Eppure mi ostino a imbottigliare la vita in una botte mai ebbra, ore anziché litri, e a tapparla ottimista per conservare ogni voce senza farla scappare, un po’ come Ursula nella Sirenetta Disney. Non mi accorgo, giorno a giorno, che l’alcol evapora, l’ossigeno altera, e ritrovo un contenuto che non è più lo stesso.

Uguale quando scrivo, devo aver già immaginato tutto. Settimane a progettare e pianificare e pazienza se per qualcuno è deplorevole o uccide la creatività, non so fare altro neanche per accelerare; sentirei di nuotare a riva. Ma la stesura non va mai come ho stabilito, basta un concetto a stravolgere la costruzione che l’ha preceduto e la pattumiera guadagna pagine a palate.

Amo documentarmi, raccogliere informazioni che chissà se mai userò, accarezzare migliaia di fogli che contribuiranno a scrivere poche righe e a volte neanche quelle.

Ho un sogno, temo poco originale ma lo inseguo da che io ricordi: sigillarmi per mesi in una biblioteca solo mia. Porterei scorte d’acqua e viveri, quaderni a righe fuori misura, penne nere blu rosse Pilot BP-S fine (col cappuccio e non a click, le stesse dai tempi delle medie), biancheria e jeans e maglie scure. E trenta pezzi della mia musica preferita, classica punk rock pop metal rap etnica e via dicendo – tutto tranne il jazz, che trasforma la mia ignoranza in frustrazione ma prima o poi rimedio. Metterei a oltranza un brano al giorno, tutto il giorno per un mese di fila e poi si ricomincia, un solo motivo fino a consumarne ogni sfumatura emotiva.

Un’unica sala con libri alle pareti fino al soffitto, organizzati da una mente superiore e a me benevola: per lo più testi che possano piacermi, servirmi o influenzarmi, un angolino di pinzillacchere consolatorie e qualche tomo antico a profumare l’aria. Tre tavolate massicce e lampadari a paralume, uno scrittoio Luigi Filippo (questo l’ho cercato su internet, non me ne intendo) affacciato sui romanzi ottocenteschi e il letto, essenziale, in una nicchia a parte. Un bagnetto con doccia e una cucina senza pretese, bon.

Fuori dalla biblioteca vorrei un chiostro da condividere con una piccola comunità di monaci, magari il chiostro di San Matteo a Genova, quello dell’Abbazia di Staffarda o della Certosa di Pesio, che con la neve è il mio rifugio. Ma basterebbero anche i resti di una chiesa sconsacrata, il cortile porticato di una cascina in disuso o le fondamenta di un edificio demolito, insomma un tracciato che accompagni il fluire dei miei pensieri.

Quando attraverso la fase acuta della scrittura, i monaci per me rappresentano un modello di organizzazione: mi alzo alle 5.20 e seguo una tabella che riprende la loro suddivisione della giornata, alternando lavoro manuale e intellettuale, ed emulo il rigore dei loro passi fino alle 21, ora in cui mi corico soddisfatta.

– Ecco che abbiamo la monaca di Mon…

– Silenzio, non adesso! Dicevo…

Il percorso che il chiostro offre è vitale per fantasticare.

Quando vivevo a Imperia percorrevo tutte le mattine lo stesso tragitto, schivando scelte e divagazioni: da Piazza Roma scendevo lungo via XX Settembre, noncurante degli ambulanti il giovedì o dei contadini il martedì, delle ciarle da bar e degli effluvi da panetteria.

Tiravo dritta fino al Duomo e mi arrampicavo al Parasio, così simile alla mia Genova. Oratorio di San Pietro che spia il Monte Calvario, mare mare per le Logge delle clarisse, crêuze ripide che se non stai attento ruzzoli cosce all’aria e passeggiata a strapiombo fino agli anziani che giocano a Cirulla in piazzetta.

 Ancora: passi svelti per Borgo Marina e i suoi fari, dondolio incantatore dei natanti e strilla dei pescatori che annodano le reti; ultimo sforzo ed ecco casa.

Non ho mai dato per scontato i posti in cui ho vissuto, ma ora che sono lontana apprezzo di più quelle passeggiate, aggiungevano pezzi alle mie storie: era come guardare un film, poi rientrare e riassumerne trama e personaggi. A volte mi sembrava di plagiare il lavoro altrui, tanta era la precisione con cui i racconti si delineavano in me.

Dal trasferimento non ho ancora trovato un percorso simile, né un mio ritmo di scrittura costante. Sarà perché camminare col freddo è faticoso, perché non conosco le zone e mi distraggo o perché ho paura di cimici e altri insetti che qui abbondano.

Così mi sono organizzata in soggiorno, dispongo a terra vecchi numeri di Topolino a formare un grosso rettangolo – lo facevo anche da piccola per delimitare la casetta immaginaria, mi sentivo invisibile come quando piove – e seguo il…  

– Conosco un bravo psicologo.

– Basta, mi distrai.

Seguo il tracciato esterno del quadrilatero di giornalini, tra i monaci apparenti che riflettono senza badare a me. Circumnavigo il chiostro finché non germoglia l’idea, e cresce, e rotola come balla di fieno.

Insomma, quando i sogni non si realizzano bisogna darsi un’alternativa. La mia scrivania si trasforma nello scrittoio silente della biblioteca, gli operai che alternano pausa e lavoro sulle impalcature diventano religiosi che seguono la rigida regola del loro Ordine, stampanti e traffico si arrendono a un muto brusio.

Solo così porterò avanti i miei progetti senza affibbiare colpe, sistemerò la traccia del romanzo che vorrei scrivere (incompleta, incoerente e troppo lunga per risultare utile) e butterò giù due raccontini che ho in mente.

Ma un autunno non è autunno senza una wishlist di libri. Data l’incertezza del periodo, preferisco muovermi a breve termine e segnare giusto qualche titolo per ottobre (chiedo scusa a Haruki Murakami, a John Williams e a tutti gli autori che ho illuso, recupereremo a novembre):

# Mentre morivo di William Faulkner.

# L’ultimo inverno di Rasputin di Dmitrij Miropol’skij.

# Nikolaj Gogol’ di Vladimir Nabokov.

# Cinque racconti di Ambrose Bierce.

# Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio di Remo Rapini.

# Tutto chiede salvezza di Daniele Mencarelli.

# Codici & segreti di Simon Singh.

– Tra i fioretti non dimenticare di mettere il piumone al letto, o quest’autunno altro che sogni…!

Stavolta ha ragione, piumone al letto e scorta di tè e dolcetti alle mandorle. Ma soprattutto devo recuperare la mia instancabile clessidra da un’ora, che non concede una seconda possibilità neanche a se stessa.

Scrivi mi dice, scrivi mi canta, scrivi sussurra, scrivi bisbiglia ogni granello che pascoli.

E io mi arrendo.

Questione di virgola

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Ho perso un quaderno prezioso, un quadernetto blu-mediterraneo, comprato qualche anno fa in Grecia,  sul quale avevo annotato la storia – vera o pensata – delle facce e dei posti incrociati tra Delfi, Olympia, Corinto, Epidauro, Micene, Eleusi fino ad Atene.

Delfi ti cambia la vita.

La sera prima di salire al santuario di Apollo ceno in una tipica taverna di paese, mi raccontano miti che riascolto con piacere. Giro per le strade polverose tra pullman che non trovano requie, botteghe di formaggi sottovuoto e bazar di souvenir prevedibili. Compro per sei euro una radiolina a batterie. Sul balcone dell’hotel ascolto musica notturna a km zero, la piana fino al mare richiama gli eserciti che si sono fronteggiati nella prima guerra sacra, duemilacinquecento anni fa.

Cerco una domanda da porre alla sacerdotessa Pizia, ma devo formularla bene o sprecherò l’attimo. Al di là della risposta più o meno pregnante, a me interessa proprio la domanda, quel dubbio vitale che nell’antichità mi avrebbe fatto rinunciare a giornate lavorative, percorrere chilometri e chilometri a fatica, pagare tributi onerosi pur di ottenere un responso non per forza risolutivo. Voglio una domanda inespugnabile, che non lasci scampo all’oracolo ed esprima quell’unico desiderio che rivolgerei a un astro cadente.

E così, in una tiepida mattina primaverile che avrei voluto di due millenni fa, nascosta dietro un look maschietto alla Fantaghirò (le uniche donne che la Pizia accetti al tempio sono le pie comari che mantengono il fuocherello), col receptionist dell’albergo ad accompagnarmi, il mio quesito bell’e buono in tasca e una specie di saltacoda dei poveri, resto in attesa di un cenno.

Già, perché Apollo non sempre è disposto a dare consigli, neanche nei giorni stabiliti. I sacerdoti bagnano con acqua fredda una capra spaurita: se all’animale vengono i brividi il dio è sveglio e parlerà, la capra sarà bruciata e i presenti sapranno che la cosa si fa; se no, tutti a casa e alla prossima.

Fumo dal tempio, è andata.

Superata la giurisdizione di Athena Prònaia col suo ammiccante tempietto circolare, mi rinfresco alla fonte Castalia dove si purifica la Pizia prima delle consultazioni e ammiro il massiccio del Parnaso, tanto caro alle Muse e ai loro protetti.

Dopo negozietti di ex voto e laboratori artigiani, stretta tra le mura poligonali che a leggere tutte le scritte dei pellegrini si fa notte, vado zigzagando lungo la comoda e lastricata Via Sacra che attraversa il santuario fino al tempio di Apollo.

Mi arrampico tra pietre sacre, tempietti, tesoretti, cimeli e fotografi improvvisati fino alla meta, che chissà cosa doveva essere quando tutto sbrilluccicava di marmo, colori e metalli preziosi. Non degno di uno sguardo il museo, né il teatro: la domanda mi prude dentro e assecondo l’urgenza.

Al cospetto dei sacerdoti sono emozionata peggio che alla maturità. Domanda accolta, evviva! Mi purifico, offro sull’altare la focaccetta comprata in paese e pago il corrispettivo di un paio di sneakers. Mi tranquillizza leggere un familiare ΓΝΩΘΙ ΣΑΥΤΟΝ, “conosci te stesso” (sì, la scritta che in Grecia campeggia sulle magliette col faccione di Socrate, proprio quella).

Entro nel tempio, c’è qualcosa di sinistro e non sono i pipistrelli. L’agnellino sbrandellato e puzzolente che porto con me viene cotto, distribuito e in parte sacrificato.

Devo aver fatto tutto per bene se i sacerdoti, senza sospettare che io sia femmina, mi portano nella stanza segreta della Pizia: due statue di Apollo, una pietra-uovo che sembra una pigna, memorabilia a profusione, fumo, penombra e odore di abete natalizio misto a carne all’uccelletto.

La Pizia, sul trespolo, sembra una milf in preda alle caldane. Bevo un’acqua che sa di piedi allo zafferano e formulo la domanda per Apollo. La donna scende in una spaccatura del terreno e dopo venti minuti riemerge così strafatta che i sacerdoti parlano per lei, trascrivono le sue parole e me le riportano.

Grata e appagata mi avvio all’uscita, ma vengo trattenuta: la divinità reclama ancora un dono. Mi rassegno a lasciare il pataccone d’oro della Prima Comunione, la Madonna che stringe in braccio Gesù Bambino. Ma cosa se ne farà poi Apollo…!

– Ecco dov’era finito, il medaglione. Quindi… hai avuto il tuo responso?

– Certo, l’oracolo ha sentenziato: “Le mine non affogheranno nell’aere quando seppellirai i defunti”.

– Che tradotto sarebbe…?

– Che andrà bene o che andrà male; che devo staccarmi dal passato o che non devo cambiare solo per compiacere gli altri.

– Contenta tu.

– È la classica risposta sibillina, il senso dipende dalla virgola.

– E dove la piazziamo questa virgola?

– Può stare prima o dopo “nell’aere”. Mi auguro che vada prima.

– Va beh, basta parlare di oracoli.

– Torno a scrivere.

– Ma davvero tutta questa pappardella su Delfi e non mi sveli La Domanda fondamentale sulla vita, l’universo e tutto quanto?

– Non prendermi in giro! E poi cosa te ne importa?

– Magari mi aiuta a capire La Risposta!

– Sparisci, va’!

La soluzione del quiz La Domandona tra una settimana.

Ho perso il filo

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ciccio filo

7,30 a.m., ultima domenica d’agosto che a quest’ora non sembra domenica. Appuntamento-caffè con un’amica per la quale rinuncio volentieri al sonno. Cammino fino al Parco Urbano, mascherina sul naso a mitigare il freddo e braccia che rimpiangono un altro paio di maniche.

Intorno Sabbia rossa e deserto alla Litfiba, Vento d’estate come per Niccolò Fabi e alcune facce da mandillä, i tagliaborse di De André, a farmi accelerare.

Il mare abbaia, raffiche solleticano musi canini, la macchia mediterranea spumeggia nell’aria. In lontananza centri storici, cattedrali e ciminiere da archeologia industriale. Chiome verdi si agitano come sulla testa delle sciure a teatro. Il sole protegge ancora la nostra estate umana. Tre uomini che corrono e ridono, sparute macchine dagli occhi rarefatti, biciclette coi polpacci arrugginiti.

Tutti si ignorano, tutti mi ignorano. Va bene così, non mi serve niente.

Ma se avessi bisogno?

Pochi giorni senza scrittura e sono scivolata via dalla storia. Non è questione di concentrazione, quella si ritrova. Se trascuro un progetto subentra una vera mancanza di confidenza, i personaggi si fanno muti e non arrivano più soluzioni. Tento invano di recuperare quella trama che sembra passata di moda, fisso idee impalpabili e scartabello tra vecchi appunti a caccia di benevolenza.

Il pensiero pretende devozione e io l’ho trascurato per la parola. La parola uccide il pensiero, ripetevo anni fa a chi mi disturbava sul treno. In effetti per quattro giorni sono scesa in spiaggia e ho parlato, parlato, parlato coi vicini di ombrellone, sul bagnasciuga, in acqua, alle docce, al bar. È stato piacevole, ma ho perso il filo.

Una volta ho scritto un racconto, Le mogli del mare, finito in un’antologia benefica curata da Andrea Franco. Le mogli del mare, tra difetti e ingenuità, narra di una lunga amicizia tra donne. Protagonista è il mare, padrone che attrae e respinge, nutre e fa soffrire, ricompensa e pretende sacrifici. Quel mare che giocando strappa un bambino ai suoi affetti.

Ieri in spiaggia ho letto il romanzo di un esordiente (Sa funtana ‘e s’ùlumu di Antonio Carta), ho fatto i cruciverba, ho giocato a Dobble. Il mare frizzante e corposo invitava a fidarsi. Acqua alle caviglie e al ginocchio, mi vedevo parte di un tutto festoso. All’orizzonte una mano mi chiamava entusiasta, avanzavo cauta nella bagna fredda.

Un movimento brusco tra me e le due signore coi cappelli di paglia. La coda dell’occhio snobba una massa grigiastra tra i flutti: “Non ci sono squali, sarà un secchiello”. Rapido spostamento d’aria e il papà ha già in braccio il tesoro smarrito, il fagottino di due anni che si azzuffava con la schiumetta per sopravvivere. Riecheggia un gran primo vagito. Noi tre donne inutili ci avviciniamo serie, colpevoli, e con noi una coppia di tedeschi sbucata da chissà dove. “Il bambino era lì e non l’abbiamo visto”, “Mi dispiace, non me ne sono accorta”, sembrano frasi di circostanza. Il papà annuisce distante, stringe forte la sua tragedia mancata.

Padre e figlio costruiscono insieme un castello di sabbia, passeggiano lungo la costa e siedono sul lettino a mangiare focaccia, la più buona della loro vita.

Ho fissato a lungo quella piccola magia. Il magone non mi ha dato tregua.

Magone da “avrei potuto” e “se almeno avessi”, lo stesso provato prima di Natale a Nizza. Sprofondiamo nell’indifferenza nostro malgrado, spesso solo per distrazione. O almeno, a me capita così.

Ma a Nizza è stato diverso, il rimorso mi accompagna ancora.

Resoconto.

Sto viaggiando al posto del passeggero, ne approfitto per guardarmi intorno. Intermittenze natalizie rischiarano una Promenade ignara di quel che già cova in Cina; bilocali design da riviste di architettura, hotel e maison di lusso, alberghi e boutique, giacigli e botteghe per chi può e chi meno.

Raggiungiamo un quartiere di auto e roba e gente accatastata, cose cose e cose ammonticchiate per le strade e sui balconi, quasi fossero la misura del benessere. La quantità non rende ricchi, qui è evidente.

Le luci si fanno misere, il supermercato appiccicoso resta aperto. Rallentiamo per un’auto in manovra.

Gesti rapidi attirano il mio sguardo. Due ragazzi sgualciti prendono a calci e pugni un coetaneo: stomaco, denti, naso, gambe, non si salva nulla. Sussulto, stringo la maniglia, resto immobile. Clienti schivano il gruppo e attraversano la strada. Ripartiamo e non dico niente. Mi volto a spiare i due che scappano, la vittima si alza a stento. Cerco scuse per tornare ma non è facile orientarsi in questo labirinto.

Sensi unici e vicoli ciechi, pedoni e clacson all’impazzata, finalmente il supermercato. Non c’è segno del pestaggio, ma so di non aver sognato. Il ricordo va al più giovane, più pulito, più fortunato, al bersaglio, a quello con più spavento e meno rabbia.

Erano pusher che raddrizzavano un cliente strafottente? Compagni stufi di essere vessati da quel figlio di papà? Rapinatori seriali che terrorizzano il quartiere?

Mi spaventa comunque l’idea che mio figlio, che tuo figlio, sia assalito per strada senza che nessuno intervenga, quello stesso figlio che accarezziamo, coccoliamo e amiamo da sempre. Forse a Nizza mi sarei cacciata nei guai, ma sarei dovuta intervenire.

Nick Hornby mi suggerisce la lista delle cinque cose che avrei potuto fare e invece niente. Avrei potuto:

1 – aprire di scatto la portiera e urlare: “Aiuto!”, “Fermi!” o qualunque altra frase, anche “La nebbia agli irti colli”, pur di spaventare gli aggressori;

2 – suonare il clacson per attirare l’attenzione fino a farli scappare;

3 – chiamare la polizia;

4 – scendere a separarli (no, questa non è plausibile);

5 – aiutare la vittima rimasta sola.

Non so chi sia né come stia quel ragazzo, ma continuerò ad augurargli ogni bene.

Tornando a oggi…

– Oggi è domenica, senti che campane.

– Ma che campane e campane, pensa a pulire il basilico così facciamo il pesto.

– Che noia! Va bene, ora vado. E tu pensa a buttare giù una traccia, che è fine agosto e non hai niente di decente da scrivere.

– Non è vero che non ho niente: ho qualche personaggio da caratterizzare, alcune psicologie che sconfinano nel patologico, due o tre situazioni carine per i protagonisti (in realtà carine per me, loro si divertiranno meno).

– In pratica hai due o tre sfigati dai tratti nevrotici ai quali ne combinerai di tutti i colori.

– Può darsi ma tu sbrigati in cucina, che di questo passo si fa notte e la domenica finisce.

In effetti devo essermi persa qualcosa, oggi è già lunedì…